In seguito riprenderò a parlarvi di ricettività e restauro ma il mio mestiere è fatto anche di parti tecniche e di cultura muraria e tengo molto a condividerlo. Oggi voglio lasciare traccia di una discussione molto interessante scaturita da un post della rivista Elle Decor ("Perchè il calcestruzzo dell'antica Roma è durato migliaia di anni senza sgretolarsi?") e che ha aggiunto qualcosa alla mia conoscenza degli impasti a base di calce.
Sfatiamo subito i luoghi comuni: il calcestruzzo dei romani non era fatto di cemento Portland, arrivato al mondo molto dopo - nel 1824 -. L'opus cementicium dei romani era fatto con la calce.
Nell'articolo si spiega sommariamente della ricerca effettuata congiuntamente da scienziati del MIT (Boston), del DMAT (Dipartimento di Matematica del Politecnico di Milano) e dell'IMMS (Istitituto di Meccanica dei Materiali, Svizzera), capitanati dal professor Admir Masic, circa la capacità dei calcestruzzi antichi di autoripararsi e di avere caratteristiche di durabilità maggiori.
L'articolo riportato su Elle Decor riassume sommariamente la presenza di "lime calsts" (clasti di calce, che semplificando - passatemi il termine - si potrebbero definire delle strutture di materiale calcinoso con alto grado di deformabilità).
Sulla mia pagina FB ho pubblicato un breve approfondimento dell'articolo di Elle Decor, pubblicato in Science Advances sotto al titolo di "Hot-mixing: Mechanistic insights into the durability of ancient Roman concrete": nell'articolo, escluso che si potesse trattare di impasti non ben eseguiti o di materiale in sovracottura, si spiega che la formazione di questi clasti di calce sarebbe dovuta (semplifico per brevità) a fenomeni legati alla temperatura di confezionamento del getto.
Poichè la resistenza degli impasti è uno dei focus di cui parlo diffusamente a proposito di restauri anche nel mio libro ("l'hotel infra ordinario"), l'argomento ha suscitato in me un innegabile interesse.
Nel mio libro nello specifico cito un cantiere del 2015 in cui capitò di imbattermi presumibilmente in un impasto a base calce con una resistenza maggiore dell'usuale.
Avendomi prescritto il responsabile U.T. di Limone sul Garda Luciano Boschi l'analisi granulometrica degli impasti, a corredo della documentazione di progetto, avevo notato quanto fosse disagevole la rimozione anche di un piccolo pezzo di intonaco o di fondazione, essendo da sempre alla ricerca di maggiori caratteristiche di durabilità per le integrazioni delle calci.
Da lì è partita la mia ricerca che però è stata indirizzata inizialmente nel senso dei processi di idraulicizzazione e non in riferimento alla temperatura: il Mastro Quarneti parlava ad esempio nei suoi "quaderni" di "malta cenere", essendo che la cenere di legna contiene potassio, sostanza con un blando potere idraulicizzante; e di confezionamento tramite "battitura" del calcestruzzo.
Mio padre, artigiano edile classe 1942 e a sua volta figlio di un muratore classe 1904, mi parlava di polveri sottili addizionate alla malta (preciso che il cantiere in questione non si trova in zona con disponibilità di Pozzolana) e di "calce conia" ossia "calce cenere".
Su entrambi gli aspetti ho ancora molto da approfondire.
Tornando ai clasti, figurandomi la calce idratata nelle buche coperta d'acqua mi chiedevo come fosse possibile gettare materialmente con il prodotto in fase di spegnimento, in preda alla reazione esotermica.
A seguito dell'articolo di Elle Decor e del provvidenziale scambio di opinioni con il collega architetto Gianfranco Guzzardi, egli mi spiegava il possibile procedimento utilizzato nell'antica Roma.
Partiamo dalla calce viva che esce dalla calchera e che si solidifica e viene poi ridotta in polvere frantumandola con macine a pietra.
Tale calce si utilizza quindi per il getto prima dell'idratazione della stessa, mescolandola con l'inerte e posizionandola, a secco, dentro a casserature metalliche.
A quel punto l'impasto veniva bagnato, causando la reazione esotermica, mandando l'impasto ad alte temperature e generando i clasti di calce, queste microstrutture con grado di deformabilità che, una volta percolate da agenti atmosferici nel corso del tempo, avrebbero questa capacità di disassemblarsi e riassemblarsi.
Il getto veniva eseguito in strati di spessore contenuto che facevano presa molto velocemente.
Questa è la spiegazione del fenomeno, resa in modo semplificato e molto pratico.
Ringrazio il collega Guzzardi per la collaborazione, Elle Decor Italia per l'occasione di poter trattare un argomento così tecnico.
Restano da chiarire ancora una serie di elementi circa la battitura degli impasti o circa la formazione dei cosiddetti "calcinaroli" o sull'aggiunta di gesso per regolare il basso grado di umidità di stagionatura, che approfondiremo in altri post.
Vi lascio un breve estratto del mio libro "l'hotel infra ordinario" circa quest'argomento, buona lettura.
1 - "Da molti ingegneri anziani mi sono spesso sentita dire “architetto tenga conto delle proprietà elastiche dei materiali, la calce ha una sua plasticità”. Cose che ascoltavo ma ancora non capivo, troppo presto per agguantare tutta la cultura e l’esperienza necessaria a comprendere a fondo quel concetto, a capire che a volte è meglio avere una parte morbida che si deforma lentamente invece di una che esplode tutta in un colpo."
2 - "L’appellativo dialettale “bacòl” è il soprannome con il quale vengono spesso definiti gli abitanti di Tremosine nei paesi confinanti. Il dubbio che tale appellativo potesse fare riferimento alla passata coltivazione dei bachi da seta devo dire che sinceramente mi era venuto in mente. Confrontandomi in seguito con uno storico locale, il professor Domenico Fava, egli mi disse che il soprannome non era da citare in quanto probabilmente aveva avuto nel tempo un’accezione dispregiativa. Derivava forse dal sostantivo dialettale “bàcol” - bacchetta, bastone -, in riferimento al fatto che la ruralità dei tremosinesi avesse potuto essere in passato tanto rustica da tenere a bada con la forza, con il bastone appunto. La cosa mi è sembrata sospetta. Mi risultava difficile pensare che ad un certo punto i confinanti
avessero ritenuto di definire “tutti” i tremosinesi così rudi e aggressivi. Purtroppo su quest’argomento non sono riuscita a trovare ulteriori approfondimenti; nemmeno sul libro di Gabriele Scalmana, un altro di quegli interessanti uomini di cultura locali che ha redatto un vero e proprio vocabolario sulla lingua locale: avevo riposto nella sua pubblicazione molte aspettative. Secondo Scalmana “baco da seta” era denominato “cavaléra” nella lingua locale, molto distante dall’assonanza con l’italiano “baco”. Qualcuno mi disse poi che “cavaléra” faceva riferimento alla farfalla e “bàcol” al baco ma Scalmana sulla sua pubblicazione è preciso e indica l’appellativo “cavaléra” come “baco”. In seguito, sfogliando il prontuario del Mastro Quarneti mi capitò sotto agli occhi la stessa parola, “bacol”. Si cita un attrezzo da lavoro che porta questo nome, il “bàcol”: un attrezzo in ferro, con manico
di legno, utilizzato un tempo per battere gli intonaci al fine di accelerare l’uscita dell’acqua dalla calce. Parola simile al suono del tremosinese “baciòcol”, battacchio o alla radice di “bàter”, battere. La discussione per il momento resta aperta poiché, osservando la curiosa finitura degli intonaci originali degli edifici del ramo diffuso della locanda, qualche dubbio che il materiale da intonacatura possa essere stato lavorato in quel modo mi è venuto. La regolare tessitura di piccole crepe che si evidenzia sulle facciate, sembra dovuta ad uno sforzo puntuale di compressione frontale ripetuto in modo sistematico, simile a quello che si sarebbe potuto applicare colpendo l’intonaco fresco con qualcosa. Certo potrei sbagliarmi, si tratta solo di una traccia sulla quale lavorare."
3 - "Nel 2015 in un cantiere a Limone sul Garda avevo trovato la parete di un muro contro
terra e un battuto di fondazione realizzati con quella che ipotizzavo fosse una calce “conia”, una calce dove per qualche motivo finiscono idraulti o elementi ad attività pozzolanica. Il materiale diventa in parole povere molto resistente. Mi avrebbe fatto comodo carpire come si impasta una malta di calce di ottime caratteristiche meccaniche e di resistenza come quella. Me ne parlava mio padre che assisteva mio nonno nel lavoro edile da bambino, anche se subito non ero riuscita a capire da dove derivasse il nome. Sebbene la calce conia sia attualmente in parte ancora un mistero, tutti gli indizi che ho trovato sono stati utili a migliorare le mie conoscenze in materia di calce e di malte. Non è che la malta di calce debba diventare per forza durissima, non avrebbe senso per un materiale che ha tra i suoi pregi quello di avere una certa elasticità e plasticità, di saper cioè assorbire una parte degli sforzi e delle sollecitazioni cui viene sottoposta. Tuttavia, le malte e gli intonaci di calce se non correttamente lavorati, dosati e posati, tendono a disgregarsi in qualche misura, a non aderire con forza o a non avere durabilità e questo per me era un problema. Era un problema nel momento in cui mi trovavo per qualche motivo ad integrare le malte esistenti.
Quel termine “conia “così sconosciuto ai più e che mi aveva messo addosso la smania dell’indagare, deriverebbe dal greco “kunis” - cenere - ma potrebbe pure avere qualche familiarità con (...) il francese “cogner”, battere (...) (le zone di Tremosine e del Garda sono state invase nell’antichità dai Cenomani, di origini appunto francesi. La cosa mi ha dato parecchio da macinare, non lo nego, per varie coincidenze tra i termini. - ndr) (...) Prima mi sono prestata a svariate letture di manuali ottocenteschi e novecenteschi. Poi seguendo il consiglio di un amico ho condiviso le mie ricerche con un gruppo Facebook (...) a forza di cercare mi imbatto nell’enciclopedia archeometrica del Mastro Quarneti che fu di nuovo illuminante. Il luogo dove pensavo di aver rinvenuta la calce conia non era assolutamente zona di argille; inoltre era stato un borgo di pescatori e poteva aver visto il cemento Portland in modo diffuso non prima degli anni ’60. (...) Il termine “malta cenere”, ritrovato poi nei Quaderni del Mastro Quarneti, indica una malta composta da calce, sabbia e cenere (...) La cenere contiene potassio e la potassa fa da idraulicizzante. (...) Nella zona dove rinvenni un ipotetico campione di malta cenere c’è anche molto magnesio disponibile e anche una malta di calcare e magnesio ho letto può diventare molto resistente se spenta accuratamente. A mio padre ad un certo punto parve di ricordare la calce ancora calda mescolata a sabbia e una polvere grigia sottile gettata come fondazione. Escluse fermamente che si fosse trattato di polvere di carbone: il paese era poverissimo e l’unica risorsa abbondante non più riutilizzabile per altri scopi era solamente la cenere di legna. Per la parte sabbiosa mi parlò di sabbia fine trascinata a valle dai torrenti, la cosiddetta “lea”,
limo argilloso. Anche in merito all’argilla si apre un mondo di ragionamenti, sia per la sua composizione micellare, che per la sua carica elettrica, che per la sua natura flocculante.
4 - "L’architettura di Vitruvio nella versione di Carlo Amati", Firenze, Alinea, 1989, “MALTA CON CALCE E CENERE”, Nota (2) (p. 201): “Dall’interessante e giudizioso ragguaglio poi del Sig. Panati sull’Africa, merita esser estratto il metodo di comporre un cemento tenacissimo, usato dagli Africani che molto più badano alla solidità che non all’ornato. Codesto cemento è composto di tre porzioni di calcina, una di sabbia, e due di cenere di legno; e chiamano questa composizione Tabbí. Dopo fatta una tale mescolanza, vi gettano quantità di olio, e quindi tutto battono per tre giorni senza intermissione, fino a che il cemento sia pervenuto alla debita consistenza. Impiegato nelle costruzioni acquista la durezza del marmo, è impenetrabile all’acqua, e resiste all’azione tanto degli elementi, che de’ secoli. Il detto
Panati opina che i popoli della Numidia e delle Mauritanie abbiano presa dai Romani la composizione di questo cemento, e desso è per avventura il segreto dell’essersi dagli antichi portata la fabbricazione al massimo grado di solidità.
(citazioni da "L'hotel infra ordinario" di Katia Girardi Architetto, vietata ogni duplicazione o copia anche parziale, non autorizzata. Opera protetta dal diritto d'autore)
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